La figura professionale più efficace per garantire il buon governo societario è sicuramente un Presidente del C.d.A. indipendente ed autorevole.
Qui entra in gioco il concetto di indipendenza, intesa come capacità di determinarsi in conformità ad una legge morale propria, come libertà dei condizionamenti dalle imposizioni (ed anche dalle autoimposizioni): un tema che si declina in modo vario nelle norme positive di diritto societario. Ci limiteremo a dire, con un amico scomparso che una persona indipendente ha la consapevolezza di esercitare una funzione destinata a tutelare interessi di più soggetti e riesce ad essere imparziale: “Imparzialità e indipendenza terminano a loro volta in un circuito virtuoso dove si sviluppano terzietà, distacchi ed autonomia di giudizio, un insieme di condizioni senza le quali sarebbe svuotato, sul piano operativo, ad esempio, la legittimazione dei sindaci all’azione di responsabilità contro gli amministratori…”. “E’ un caso esemplare di esercizio virtuoso delle doti di indipendenza, in quanto i sindaci, eletti dalla stessa maggioranza, sono chiamati ad agire nell’interesse della società, contro persone con le quali può esservi una consuetudine di lavoro in definitiva una “vicinanza” che talvolta può tradursi almeno sul piano psicologico in una sorta di inibizione” (Tantini, Cedam, 2010, 22).
Peraltro, l’art. 2387 c.c. prevede un’autoregolamentazione della società che può stabilire speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza per rivestire la carica di amministratore della società.
La norma ha una forza di coercizione importante, giacché si può prevedere quale giusta causa di revoca di un amministratore la violazione della medesima, sia mentendo all’atto dell’assunzione della carica, sia perdendo nel tempo i requisiti esistenti in partenza.
Ma al di là dell’ipotesi prevista dall’art. 2387 c.c., il legislatore ritiene che l’amministratore possa mantenersi formalmente indipendente (sia pure solo sul piano formale), anche nel caso in cui abbia un interesse proprio in un’operazione societaria, purché si attenga ad alcune regole, che contribuiscono a formare una delibera della società indipendente, appunto, dall’interesse del singolo amministratore.
Questo interesse consiste in un’utilità, di qualunque tipo (e comunque deve essere rilevante), che derivi, anche indirettamente, all’amministratore a seguito dell’operazione oggetto di delibera. E’ il caso dell’amministratore che sottoscrive, a nome di una società, una fideiussione bancaria per garantire il debito contratto da altra società del medesimo gruppo e con il medesimo amministratore, società quest’ultima in stato di insolvenza.
Qui non è evidentemente la compresenza di ruolo di amministratore di due diverse società a determinare il conflitto di interessi: solo l’idoneità a determinare un danno per la società integra il conflitto. Ed è evidente che la garanzia offerta alla banca crea un danno alla prima società, che verrà escussa per un debito non suo.
Il nostro legislatore vuole pertanto che l’amministratore, che abbia un interesse (conflittuale, ma non solo) “in una determinata operazione della società” (art. 2391) debba dichiarare tale interesse con una disclosure ampia, dando precisa informazione su “la natura, i termini, l’origine e la portata”.
In questo caso l’A.D. deve astenersi dal votare e il C.d.A. deve motivare adeguatamente “le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione, pena l’invalidità della delibera assunta con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi”.
Ove l’amministratore non osservi la norma, si espone ad una responsabilità che lo obbliga a risarcire l’eventuale danno, così come si espone ad una revoca per giusta causa.
Peraltro, sul piano reputazionale, il venir meno della caratteristica di indipendenza per quella specifica operazione non dovrebbe intaccare l’indipendenza di quel soggetto per l’intera gestione della società.
Lo statuto della società potrebbe dunque prevedere un obbligo di disclosure ricorrente nel tempo, per accertare nelle autodichiarazioni se alcuni dei requisiti statutariamente richiesti siano andati persi.
I limiti alle deroghe statutarie
Come si è detto, nello statuto possono essere previste norme che deroghino al potere di convocazione del C.d.A. da parte del Presidente, prevedendo la legittimazione in capo ad un consigliere (il vice presidente?) o ad un numero minimo di consiglieri.
Tale deroga statutaria riguarda l’estensione della legittimazione nell’esercitare alcune prerogative dell’ufficio di presidenza.
Deve essere però ricordato che la convocazione del Consiglio non è un atto dovuto da parte del Presidente, ogni volta che gli amministratori ne facciano richiesta. Se, infatti, la richiesta è palesemente intempestiva, non congrua o meramente emulativa, non vi è alcun obbligo di convocazione.
Diversamente però deve agire il Presidente di fronte a richieste circostanziate, tempestive e utili per la gestione della società: in tal caso la convocazione del Consiglio rientra tra i doveri di chi lo presiede.
I poteri del Presidente possono essere delegati?
La convocazione del C.d.A. da parte del Presidente non può essere delegata ad altri soggetti. Questa è la conclusione a cui si perviene, considerando che la sua funzione primaria è quello di garantire il funzionamento dell’organo amministrativo. Infatti, il C.d.A. non può essere convocato dai soci, i quali invece possono agire per la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2367 c.c.
Lo stesso dicasi per il Collegio sindacale. I sindaci infatti possono, ai sensi dell’art. 2406 c.c., convocare l’assemblea, se riscontrano fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgenza di provvedere.
Una volta comunicata al Presidente del C.d.A. tale decisione, i sindaci provvedono direttamente a convocare i soci in assemblea, per assumere le deliberazioni urgenti, necessarie a porre rimedio alle gravi irregolarità gestionali.
Ciò conferma che anche in questo caso, è solo il Presidente ad avere la competenza per investire il Consiglio e non sono né i singoli consiglieri, né il Collegio sindacale, né i soci. Manca, infatti, una previsione di un potere autonomo a convocare il Consiglio (Ambrosini, che interpreta la norma per la quale i sindaci debbono comunque comunicare al Presidente del Consiglio la loro decisione di convocare l’assemblea, ha la funzione di offrire all’organo gestorio un’ultima possibilità per evitare tale iniziativa, provvedendovi in proprio).
Le prerogative formali di un Presidente professionalmente competente e che diriga l’organismo di governo di una società attiva sembrano piuttosto ridotte e quasi formali. In realtà le funzioni descritte nella norma contenuta nell’art. 2381, 1° c.c. presuppongono una conoscenza del ruolo e della complessità delle funzioni che l’applicazione normativa determina.
Ciò è tanto vero che, nelle società complesse, il Presidente dota il consiglio di un consulente esperto e, nelle assemblee societarie più controverse, il consulente accompagna il Presidente nella gestione della dinamica tra soci.
Questa figura è consigliata per le società quotate dal Codice di autodisciplina nell’edizione del 2011.
Il che concretamente significa che il Presidente può anche non conoscere compiutamente le norme che presiedono al funzionamento dei diversi organi della società, ma deve diligentemente munirsi di ogni strumento valido per un’applicazione corretta della normativa, che presiede all’esercizio delle sue competenze funzionali.
Così, ad esempio, il Presidente deve (dovrebbe) prendere atto di aver perso la propria imparzialità se è parte di un conflitto tra soci e questo fatto gli impedisca di essere equilibrato ed imparziale.
Così il Presidente che partecipi ad un patto parasociale dovrebbe astenersi e persino contrastare deliberazioni che, favorendo i partecipanti al patto, danneggino la società o la minoranza societaria.
Se, come crediamo, il Presidente del C.d.A. è garante del buon governo societario, indipendenza ed imparzialità debbono essere i capisaldi della sua attività, consigliando un comportamento etico ragionevole, basato sulla possibilità di conciliare valori e interessi dei soci con quelli della società.
Esperto di diritto societario e arbitrale.