I timori che la nuova legislazione della crisi di impresa possa avere effetti gravi per la sopravvivenza di un grande numero di aziende (e non solo di quelle di piccole dimensioni), già ampiamente segnalati da studiosi e pratici, hanno convinto il Ministro Cartabia a superare la tecnica del semplice rinvio dell’entrata in vigore del Codice della crisi, nominando una Commissione che verifichi cosa cambiare e cosa conservare.
Tutti siamo convinti infatti che sia necessario individuare regole più adatte al nuovo contesto economico, formulando proposte correttive, anche in considerazione degli effetti dell’applicazione parziale della nuova normativa.
Per un aspetto concreto, dobbiamo chiederci quante aziende osservino l’obbligo di predisporre assetti organizzativi adeguati, come prescritto dal riformato secondo comma dell’art. 2086 c.c.
Come si declina, in concreto, questo adeguamento non definito dal disposto normativo e non individuato in una soluzione precisa e univoca? Cosa succede in caso di mancato adeguamento?
Chi conosce la realtà delle nostre imprese può attestare un grande ritardo nella compliance all’obbligo prescritto dall’art. 2086 c.c., da parte delle aziende di minori dimensioni.
Ritardo motivato dagli effetti economici e finanziari di questo periodo, ma anche dell’incertezza applicativa della norma.
Un giudice di merito, le cui decisioni fanno giurisprudenza, (Tribunale Milano, 21 ottobre 2019, Presidente E. Riva Crugnola, in Le società, 2020, 988, con nota di Cappelli) sostiene che occorre vigilare sul procedimento decisionale adottato dagli amministratori nel predisporre gli assetti organizzativi. Procedimento che deve essere caratterizzato dall’assenza di stranezze, improvvisazioni, conflitti di interesse.
L’amministratore dunque deve rispettare il principio di correttezza e ciò non è in discussione.
Nel caso di specie, il Tribunale era chiamato a verificare l’esistenza di gravi irregolarità gestionali, nel procedimento ai sensi dell’art. 2409 c.c., integrate dagli amministratori di due società che, al momento del giudizio, “sono in grado di far fronte alle obbligazioni correnti, ma non hanno, allo stato, risorse finanziarie per sanare la posizioni debitorie risalenti”.
Da qui, la decisione di revocare gli amministratori e di sostituirli con un amministratore giudiziario. Il principio è chiaro: le difficoltà economiche non risolte dimostrano una colpevole mancanza di controllo dei rischi.
Il Tribunale di Roma (15 settembre 2020, Est. Bernardo, inedita) richiamato il 2° co. dell’art. 2086 c.c., per il quale la società deve dotarsi di un’organizzazione adeguata all’emersione anticipata della crisi, si interroga su cosa significhi l’aggettivo “adeguati” per definire gli assetti organizzativi che la n orma richiede.
Ritiene il Tribunale che l’adeguamento consista nel costante monitoraggio del rischio gestionale che l’attività di impresa comporta e qui la discrezionalità imprenditoriale non costituisce una scriminante, se l’amministratore della società manchi della dovuta diligenza e se “abbia omesso le cautele, le verifiche, le informazioni preventive richieste” per le operazioni poste in essere.
Tanto più se l’operato dell’amministratore si riveli contrario all’interesse sociale.
Le due sentenze citate sanzionano il comportamento degli amministratori di due società che non hanno organizzato una valida gestione del rischio imprenditoriale (risk governance).
L’impresa è rischio e senza rischio non c’è impresa; ma, se il rischio non è controllato, l’impresa non sopravvive.
Definiamo il rischio come la possibilità di non conseguire gli obiettivi che costituiscono l’oggetto sociale dell’impresa, con maggiori costi o minori ricavi. Si pensi inoltre al rischio costituito dalla mancata adeguatezza delle strutture che garantiscono la sicurezza sul lavoro; pensiamo al rischio di insolvenza dei clienti; oggi, in clima di pandemia, al rischio di non potersi approvvigionare della materia prima. A ciò si aggiunga il rischio informatico, il rischio di subire frodi interne od esterne all’impresa, ai rischi di cambi valutari, al rischio ambientale e così via.
Rischi che ogni imprenditore sa di correre e rispetto ai quali non ha spesso la possibilità economica di dotarsi di un’adeguata organizzazione per una gestione di controllo del rischio.
Questo mancato adeguamento delle strutture determina una violazione di legge, violazione che può essere accertata con quel particolare procedimento descritto all’art. 2409 c.c., che mira a reprimere le irregolarità gestionali che arrechino danno alla società. Le due decisioni citate dai Tribunali di Milano e Roma sono l’esito di un procedimento di questo tipo.
Il corto circuito, su cui stiamo ragionando, è così determinato dal fatto che quel particolare procedimento era stato escluso per le società di minori dimensioni dal legislatore della riforma societaria del 2003.
Quindici anni dopo, nel 2018, il legislatore del codice della crisi ha deciso di applicare di nuovo quel procedimento anche alle società a responsabilità limitata, quelle società che, di norma, sono costituire con minori mezzi finanziari, hanno ricavi di minor importo e dunque hanno anche minori mezzi per organizzare la loro struttura interna e – diciamolo pure – spesso minore cultura per dotarsi di tutti gli strumenti che la normativa impone.
Naturalmente la richiesta di adeguamento delle strutture dell’impresa ad assetti organizzativi efficienti non può essere rinunciata. Le forme però in cui far emergere questa difformità dalla norma potrebbero essere maggiormente ponderate.
Consideriamo infatti che, per la struttura della piccola impresa italiana, per gli effetti della crisi economica 2010-2013 e per gli effetti della pandemia, sono mancati spesso i mezzi per potersi avvalere di architetture aziendali efficaci. Architetture che richiedono l’intervento del consulente aziendale, di chi sappia valutare la compliance, sia esso aziendalista o avvocato.
Dunque il mancato o ritardato adeguamento potrebbe rivelarsi fatale, non solo e non tanto per i problemi che ciò determina nella ordinaria vita dell’azienda, ma soprattutto per la possibilità che venga sanzionato dall’esterno e porti alla liquidazione di tante realtà imprenditoriali.
La Commissione Ministeriale dovrebbe tener conto di questa situazione, non lasciandola definire ai nostri Tribunali, ma costituendo organismi territoriali in grado di implementare la cultura aziendale in materia di adeguate strutture organizzative, così come dovrà avvenire con gli organismi di risoluzione della crisi, che saranno costituiti presso le CCIAA territorialmente competenti.
Esperto di diritto societario e arbitrale.